Mario Cipollini

È dura.
Nei cinque anni vissuti insieme da compagni di squadra abbiamo condiviso tutto: il secondo posto alla Roubaix, la morte di suo padre e la nascita di Gianmarco, il primo figlio, nel giorno dell’Amstel...”.

Mentre ricorda il “suo” Ballero, Mario Cipollini alterna sorrisi a momenti di profonda tristezza. “Quando ero allievo, lui era dilettante nella Magniflex. Uno squadrone. Lo andavo a vedere correre, anzi ammirare. Poi lui passò professionista con tutto quel gruppo. C’erano Grimani, Canzonieri, Galleschi... Si aggiunse mio fratello Cesare. Già da juniores mi allenavo con loro.

In quel gruppo c’erano anche Magrini e Giovannetti. Gli altri più ‘scazzoni’, lui emblema di serietà e professionalità. Se c’era da fare una tappa in un bar si faceva, ma Franco tirava dritto. Sempre esemplare.

“Dal ’90 al ’93, prima alla Del Tongo poi alla MG, mi hanno messo in camera con lui, di tre anni più vecchio di me. Soprattutto con un carattere opposto al mio. Io impulsivo, lui calmo; io stravagante, lui equilibrato. Il bello era la nostra diversità. Anni indimenticabili. Mi ha insegnato tante cose. La prima? Organizzare alla sera il giorno dopo, cioè preparare scarpe, calzini, pantaloncini, maglietta già con il numero, guanti, cappellino, borsa del freddo, valigia...
Tutto a posto per il mattino dopo”.

“Tra noi c’era un forte attaccamento che andava oltre la vita che aveva preso, per un certo senso, strade che non ci consentivano di vederci tutti i giorni. Con Franco ho diviso paure, preoccupazioni, gioie e dolori. Soprattutto con lui ho diviso i sogni".

“Già, la Roubaix! Quella che regalò a Duclos Lassalle (nel ’93, ndr) fu uno scoglio incredibile da superare. Lo spartiacque della sua carriera, perché quella sconfitta lo maturò moltissimo e fu da molla per i due trionfi. Forse non digerì mai del tutto quella sconfitta. Anche Lisbona, suo primo Mondiale da C.T., fu una sconfitta. Ma pure da questa esperienza uscì più forte. Preparando Zolder mi disse: ‘Da adesso per fare la Nazionale guardo prima l’uomo, poi l’atleta’. Fu il suo capolavoro. La più forte Italia di sempre e non solo nel ciclismo”.

“Non ce la faccio ad accettare che Franco sia morto.
Nella mia mente ho costruito un giardino bellissimo e lui c’è.
Io mi tuffo in quel mondo fantastico e lo vedo, gli parlo, lo vivo. Ridiamo di quella tappa al Giro ’90, La Spezia-Langhirano. La sera prima eravamo a Camaiore, vicino casa. Decidiamo di farci venire a trovare dalle due ‘Sabrine’, fidanzate che poi sono diventate mogli. Bettoni, il d.s. non vuole. È stata una notte di fuoco. Il problema è che il giorno dopo il gruppo parte ‘a tutta’ e dopo pochi chilometri, sul Lagastrello, noi siamo già staccati. Si avvicina Bettoni e dice: ‘Visto? Cosa vi avevo detto?’.
Gli tirai la borraccia. Picchiettando sui pedali siamo arrivati fino al traguardo”.

“Una volta gliel’ho combinata grossa. Giro ’91. Tappa che dopo mille passi dolomitici termina sul Pordoi. A Franco la squadra dà l’ordine di non mollarmi mai. Hanno paura che mi ritiri. A Canazei, per stimolarmi, Franco mi dice: ‘Siamo al limite del tempo massimo’. Feci una cronoscalata. Non mi girai mai, tanto ero concentrato e sicuro di averlo a ruota.
Invece andò in crisi di fame, si staccò, rientrò e arrivò finito”.

Comunque per me Franco è ancora vivo.
La realtà non può essere così atroce.

di Claudio Ghisalberti (La Gazzetta dello Sport)

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